Gianni Morelli presenta il suo ultimo lavoro sul mondo del Codex Rossanensis al Centro Relazioni Culturali

Martedì 24 gennaio alle ore 18 alla Sala D’Attorre di Casa Melandri a Ravenna (in via Ponte Marino) Gianni Morelli sarà protagonista degli incontri del Centro Relazioni Culturali presentando il libro “Il mondo del codex. I giganti della fede e quel trono per due imperatori”  (Laruffa Edizioni) dello stesso Gianni Morelli e di Achiropita Tina Morello.

Si tratta dell’ultimo lavoro dello studioso ravennate sul Codex Purpureus Rossanensis, un preziosissimo codice antico custodito a Rossano Calabro, Patrimonio Unesco, al cui studio Gianni Morelli si è dedicato da molti anni a questa parte con diverse importanti pubblicazioni. L’incontro con Gianni Morelli del CRC sarà introdotto da Francesca Masi.

NOTE DI GIANNI MORELLI SUL MONDO DEL CODEX

Un libro è sempre imparentato con un altro libro, conosciuto o anche sconosciuto all’autore. Le parentele sono sempre presenti intorno a noi e a volte è sufficiente una sola frase per farle ricomparire. Alla sorgente di questo libro possiamo allora invitare Pietro Toesca e Martin Heidegger.

Sono passati cento anni da quando Pietro Toesca, dopo aver sfogliato più volte le pagine del “Rossanense” poneva a se stesso e dunque alla nascente critica dell’arte italiana la domanda più tenera ed esigente: “Dove sarà stato immaginato, con tanta raffinatezza, questo capolavoro?” Toesca non cercava “scuole” o correnti pittoriche e meno che mai luoghi sicuri di provenienza. La parola chiave era immaginare; vale a dire attribuire consistenza e figura a qualcosa di profondo che spinge per farsi visibile ed essere condivisa con altri interlocutori. Diventare l’immaginario di una comunità pregante, dunque, nel cui seno scaturisce il capolavoro.

Il “Mondo del Codex” rimanda anche a Martin Heidegger e alla sua indagine sul dipinto di Van Gogh del 1886 intitolato “un paio di scarpe”. Martin Heidegger, il maggior filosofo esistenzialista tedesco del XX secolo, a proposito del quadro di Van Gogh, usa questa espressione: “l’opera d’arte, quando appare, espone un mondo. Apre e rivela un insieme di relazioni che fondano la vita e la storia di una comunità”. Espressione intensa per carica umana e di straordinaria valenza metodologica, che ha condotto Achiropita Tina Morello, iconologa esperta di monetazione ed il sottoscritto, da molti anni scrutatore del Codex, al titolo di questa pubblicazione.

Il Rossanense è lo strumento che accoglie e in cui risuona la grande stagione della spiritualità cristiana in Cappadocia: terra a cavallo tra Asia Minore e Mesopotamia e luogo di congiunzione, unico nel mondo antico, tra Oriente e Occidente. Ad aprirla furono Basilio il Grande, suo fratello Gregorio Nisseno e il loro straordinario amico Gregorio Nazianzeno: tre figure gigantesche nella storia del pensiero cristiano.

Si può dire che sul piano teologico – dogmatico essi hanno avuto un obiettivo comune, che hanno perseguito con insistenza e tenacia: portare ad una soluzione definitiva la spinosa questione ariana, che aveva creato tanti problemi alla Chiesa durante l’intero quarto secolo. E la loro sintesi resterà infine come punto di riferimento costante per la cristianità orientale e per quella universale: “Un unico Dio in tre Persone”.

La tesi di questo nostro libro colloca il Codice Rossanense in un ambiente umano e spirituale non ancora sufficientemente esplorato. Non già Evangeliario tra gli altri e ben noti equivalenti siriaci e bizantini; bensì un libro dipinto nell’età di passaggio da una visualità fortemente ancorata ai valori dell’ellenismo, alla insorgente e fra poco dominante sensibilità bizantina.

Dell’Ellenismo il Rossanense accoglie senz’altro il precetto dell’arte come imitazione e l’equivalenza della figurazione alla parola degli scrittori e degli oratori. Ma il Rossanense è un libro senza eguali, perchè in esso sono state messe in opera tutte le possibili forme espressive di una medesima parola: quella parlata, quella scritta e quella dipinta, chiamate a raccontare l’incontro con Dio che ha scelto di vivere tra gli uomini per la loro salvezza.

Scrittura e pittura, concepite per essere unite in un solo libro e tuttavia presentate in modo distinto, a dar conto della tensione che si realizzava attorno ai due poli delle prime assemblee cristiane in cui si pregava e si insegnava la parola: catechesi e liturgia.

Ne parlerò fra poco. Ora vorrei offrirvi, in breve sequenza iconografica, lo straordinario volto del Cristo, rappresentato nel Codex per ben 14 volte. Sempre lo stesso volto e tuttavia ogni volta variato nei diversi episodi che lo vedono coinvolto. Lo vediamo nelle prime due tavole: la “Risurrezione di Lazzaro” e “L’ingresso in Gerusalemme” (sopra). Un volto dalla bellezza sconvolgente. Due leggeri tocchi di rosso sulle labbra – ottenuto dal cinabro, pigmento cappadoce tra i più costosi del Codex – a sottolineare la ricchezza della sua parola. Allo stesso modo anche nella tavola del “Buon samaritano” (con dettaglio del volto). Cinabro invece assente dalle labbra nelle tavole del processo che commenterò più oltre con diversa e più radicale angolazione. Da ultimo un primissimo piano di Gesù al processo: con mani nascoste e grandi occhi spalancati in una eloquente silenziosità.

Ma è nella scena di “Cristo nell’orto nel Getsemani” che Egli viene rivelato nella sua doppia natura. È in questa notte che Gesù avverte su di sé il peso enorme dell’abbandono dei suoi discepoli, del tradimento di uno di loro. La sua espressione è di tristezza e angoscia e insieme di rassegnazione per ciò che lo attende. Le mani aperte offrono a Dio Padre quella invocazione di preghiera carica di afflizione, ma sembrano altresì aspettare e ricevere il suo conforto.

Le dieci vergini sono tutte belle, sinuose e snelle. Cristo con le sue spose è a destra; le vergini stolte stanno a sinistra e una di esse, ammantata di nero ha un anello al dito. Così come il vestiario colorato, anche l’anello è simbolo di mondanità non adatta ad una sposa di Cristo. Lo stesso giardino che ospita le vergini sagge abbonda di alberi di melograno: i frutti sono maturi, se ne contano ben 18, alcuni aperti e si intravvedono addirittura i chicchi rossi.

Catechesi e Liturgia. Sono senza dubbio le due parole-chiave del Codex Rossanense. Insegnamento a viva voce e preghiera pubblica in comune. Ho detto poco fa della tensione che si realizzava attorno ai due poli delle prime assemblee cristiane, in cui si pregava e si insegnava la parola. Dove agivano alcuni grandissimi Padri della Chiesa, creatori e campioni di quel linguaggio totale.

Tutta l’attività teologica di questi Padri fu fortemente marcata dalle loro preoccupazioni pratiche. Furono pastori e capi delle comunità cristiane e la loro sollecitudine primaria fu quindi di suscitare e di nutrire la fede di coloro che erano loro affidati. Non cessavano mai di esortare e di incoraggiare i fedeli, cercando senza sosta di attualizzare per loro le Sacre Scritture. Di far entrare il Vangelo di Cristo nella loro vita quotidiana.

E se il Rossanense è un unicum al mondo proprio per lo speciale rapporto che in esso si realizza tra catechesi e liturgia, allora non sarà impossibile ricostruire il profilo degli autori del Codex e forse anche -inevitabilmente – i loro nomi.

Potremo convocare dunque a nostro conforto Melezio, vescovo di Antiochia e presidente del tormentato Concilio di Costantinopoli nell’anno 381. Diodoro di Tarso, principale esponente della teologia antiochena e convinto assertore della esegesi letterale e storica della Bibbia. Insieme a Diodoro i suoi straordinari “discepoli”: Teodoro di Antiochia e vescovo di Mopsuestia, il maggior storico di quella scuola e Giovanni Crisostomo, massimo esponente della eloquenza cristiana antica. E infine, da Gerusalemme, Cirillo, fonte irripetibile della catechesi integrale celebrata nel corpo, nell’anima e nello spirito della Chiesa orientale siriaca.

La presenza di Cirillo nel Codex Rossanense trova la sua espressione più straordinaria nella miniatura della doppia pagina dedicata alla Comunione degli Apostoli. Le spiegazioni dei misteri vengono rielaborate in una sintesi prodigiosa.

Il significato delle vesti bianche: lo slancio dell’apostolo che si protende visivamente, grazie ad una tecnica di disegno animato, ad invocare la discesa dello Spirito Santo; la postura delle mani minuziosamente comandata da Cirillo nella Comunione col pane e il corpo profondamente chinato nell’accostare il calice del vino.

L’invenzione superba di Gesù che si incarica di somministrare di persona il pane e il vino, fondando in tal modo il mistero della presenza reale e il simbolo della Santa Messa.

Nello stesso anno in cui Cirillo si spegne a Gerusalemme, Giovanni Crisostomo inizia il suo ministero di predicatore in Antiochia. Le catechesi di Cirillo sono già state trascritte e portate in Antiochia. Giovanni predica la domenica, le feste e, durante la quaresima, parecchie volte la settimana. Temperamento del grande catechista, non tollera incertezze e così Giovanni attacca, in termini violenti, quelli tra i cristiani che “giudaizzano”, attratti dalle cerimonie della sinagoga.

Il rituale ebreo, la solennità delle feste, osservare il digiuno, cure miracolose praticate forse dai rabbini ed i tribunali ebrei, che si pensava essere più giusti delle corti laiche. Tutto tendeva ad allontanare i cristiani dalle loro osservanze religiose e Crisostomo nel 386-387 (il primo anno della sua ordinazione) pronuncia gli otto, durissimi “Discorsi” – che a leggerli oggi risultano quasi sconvolgenti – contro gli “abominevoli giudei: gente rapace, bugiarda, ladra e omicida”.

Non sarà dunque un caso che nelle straordinarie e altrimenti incomprensibili miniature del Processo a Gesù, vengano a combinarsi e a fondersi esperienze e vissuto del gruppo dei santi amici che fanno capo a Crisostomo. La imponenza fisica e in qualche misura “filosofica” di Pilato, fisicizza bene e rende palpabile la suprema autorità imperiale alla quale Crisostomo e la Chiesa di Antiochia sono convintamente devoti.

Il pensiero di Crisostomo a questo proposito è esplicito: l’onore reso all’immagine si riversa sul prototipo e dunque l’offesa alle immagini dell’imperatore diventano offesa all’imperatore stesso.

In talune circostanze l’immagine dell’imperatore tiene il posto della sua persona e ne diviene un sostituto giuridico. Così, in tribunale, se era presente il ritratto dell’imperatore, il giudice decideva sovranamente come il Cesare in persona. Anche per questo aspetto le miniature rossanensi si pongono in evoluzione rispetto al racconto evengelico: Pilato nelle miniature è effettivamente il Cesare.

La presenza silenziosa e assolutamente umana di Gesù, che nella icona delle mani velate durante tutto il processo non rinuncia in nulla al proprio destino, ma semplicemente si estranea “chiamandosi fuori” dal procedimento contro di lui.

E infine i Giudei infidi, scomposti e colpevoli perfino al confronto dei sommi sacerdoti i quali, anche nel momento del più grave oltraggio a Gesù, nel pensiero subliminale di Crisostomo, pure impersonano la più alta dignità sacerdotale.

Quasi nello stesso periodo (fine quarto e inizio quinto secolo) anche Teodoro, amico d’infanzia di Crisostomo e futuro vescovo di Mopsuestia, tenne omelie catechetiche ad Antiochia. Per comprendere l’importanza di tutte queste bellissime catechesi, vero e proprio “terreno di coltura” e nutrimento delle miniature del Rossanense, saranno sufficienti poche osservazioni.

Teodoro, il più grande rappresentante della teologia antiochena, ha avuto il merito di aver fissato e difeso la concezione storica della persona di Cristo quale si trova nei Vangeli sinottici ed anche di aver magistralmente condotto l’esegesi storico-critica della Bibbia.

La straordinaria fluidità delle miniature rossanensi, così come la scelta del commento esibito nei cartigli dei Profeti del Vecchio Testamento che occupano ogni pagina nella metà inferiore, fanno pensare al dipanarsi pacato e sicuro della cristologia di Teodoro, che è effettivamente di tipo liturgico.

La chiave per la comprensione della teologia antiochena sta nella concezione del peccato dell’uomo. Teodoro combatte energicamente l’idea di un peccato originale trasmesso per eredità da Adamo ai suoi discendenti, insito come tale nella natura umana. Cristo stesso ha assunto la natura umana; se dunque il peccato è insito in essa, allora anche Cristo insieme alla natura umana ha assunto il peccato. E questo è impossibile. Cristo ha piuttosto assunto su di sé ciò che realmente è parte della natura umana, cioè la morte.

La morte, insegna Teodoro, non è una punizione per il peccato, ma una cosa assolutamente naturale tanto che anche Adamo fu creato da Dio non come un essere immortale, ma mortale e non fu solo in seguito che venne punito con la morte. Il peccato invece è sempre un atto della volontà, qualcosa che l’uomo compie contro il suo stesso giudizio migliore.

Lo scopo della redenzione iniziata da Gesù Cristo consiste nel mettere in futuro l’uomo in una condizione di perfetta giustizia e santità. Ciò avviene nella risurrezione e cioè nell’annientamento della morte nel quale gli uomini, dopo la venuta di Cristo, credono e possono aspettarsi. La fede è dunque l’attesa di un avvenimento futuro; è una speranza, è l’aspettativa fiduciosa di un evento che dovrà verificarsi.

LA NASCITA DEL CODEX. ANNO 527 GIUSTINO E GIUSTINIANO CONDIVIDONO IL TRONO

L’ultima parte del libro, elaborata da Achiropita Tina Morello, affronta uno dei temi più discussi in riferimento al Codex: la sua datazione. La Morello riporta il frutto delle ricerche da lei condotte, mettendo a confronto le miniature del Codex con un’altra fonte ufficiale: la numismatica. Più precisamente, tra due miniature dell’Evangeliario e alcune monete dell’impero d’oriente di inizio VI secolo, tra le quali esiste un rapporto iconografico straordinario e tale da poter risalire all’anno della produzione del manoscritto e ai suoi committenti.

Le tavole XIII e XIV illustrano il processo di Gesù davanti a Pilato: sono le scene che rappresentano un punto di intersezione tra la storia e il sacro. Esse ci conducono nell’aula del tribunale romano per un avvenimento che ha segnato, più di qualunque evento racchiuso nella storia, i millenni successivi.

La Giudea era una terra pericolosa, abitata da gente povera, orgogliosa e difficile che, agli occhi dei romani, credeva in una religione piena di superstizioni e pensava di essere il popolo eletto da Dio per governare il mondo.

Ponzio Pilato fu il quinto prefetto della Iudaeae e il suo mandato durò dieci anni, dal 26 al 36 d.C. La sua residenza ufficiale era a Cesarea Marittima e si era recato a Gerusalemme per sorvegliare e prevenire eventuali rivolte del popolo ebraico. Infatti in quei giorni ricorreva la Pasqua e i pellegrini giungevano in città da tutta la regione. Nel luogo dove Gesù fu processato (probabilmente negli esterni della Torre Antonina) non erano presenti statue imperiali per convalidare il dibattimento, per cui furono utilizzate le insegne imperiali che lo stesso Pilato aveva fatto portare a Gerusalemme provocando l’ira degli ebrei.

Proprio queste insegne con imagines imperiali, rette da imaginiferi troviamo raffigurate nelle tavole XIII e XIV (qui sopra) dietro lo scranno di Pilato. In esse, seppure abbozzati, vi sono i ritratti a mezzo busto di due imperatori. Le stesse figure le troviamo dipinte sulla tovaglia bianca che copre il tavolo posto davanti allo scranno del praefectus. Si ritiene che questi ritratti siano quelli degli imperatori bizantini in carica al momento della realizzazione del codice di Rossano poiché Tiberio, imperatore romano nel periodo in cui Gesù fu crocifisso, governò da solo senza associare al trono alcun cesare o augusto.

I ritratti mostrano due busti vestiti alla stessa maniera, entrambi indossano abiti civili, non militari, con un folto drappeggio di pieghe. I volti, ambedue maschili, sono imberbi ma diversi: quello a sinistra con capelli più lunghi e mossi, quello a destra ha una capigliatura molto corta. La figura a sinistra ha una corona rigida, mentre quella del personaggio a destra sembra quasi impercettibile tra i capelli.

LE MONETE

Le monete erano – e lo sono ancora oggi – un documento ufficiale, il più grande e veloce veicolo di comunicazione del potere. Le monete circolavano ovunque con estrema facilità e proprio per il loro carattere comunicativo il conio e le emissioni di nuove monete avvenivano sistematicamente ad ogni avvento sul trono di un nuovo imperatore e alla nomina di un erede/co-imperatore. L’immagine imperiale sulle monete bizantine, dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, rimase per molti secoli invariata: la sua finalità era quella di esaltare e sacralizzare la figura dell’imperatore. Egli incarnava l’autorità, affermava il suo illimitato potere sacralizzando la sua immagine; il basileus (raffigurato con il nimbo) diventava anche un personaggio quasi divino.

Questa concezione non curava la somiglianza fisiognomica del singolo imperatore, ma si concentrava sulla sua immagine idealizzata. Infatti, l’augusto nella iconografia monetale era riconoscibile solo attraverso gli attributi: il diadema, l’abbigliamento militare, la corazza, lo scudo e la lancia sulla spalla destra, lo scettro, il globo crocifero. Per l’associazione al trono di Giustiniano, voluta dall’imperatore suo zio Giustino I (aprile 527) vi fu una nuova emissione monetaria.

Solido di Giustino I e Giustiniano I (527) con la raffigurazione della Vittoria definitivamente trasformata in Angelo (oro, g.4.35; mm20; h6)

 

Monete coniate ad Antiochia di Siria tra il primo aprile e il primo agosto 527. Il Codex Purpureus Rossanensis potrebbe essere stato realizzato in tale periodo. Le produzioni delle zecche di provincia alimentavano e rispondevano soprattutto al bisogno delle stesse province locali. Anche se le monete circolavano in tutto l’impero, dalle testimonianze archeologiche relative alla Siria e ad Antiochia, risulta evidente che la moneta locale giocava un ruolo dominante sul luogo di emissione. È dunque plausibile supporre che il miniaturista del Rossanensis abbia utilizzato come fonte iconografica per ritrarre i due imperatori nelle miniature, monete in circolazione nel luogo dove risiedeva ed operava. Tra l’altro le dimensioni delle immagini imperiali sulle monete sono pressoché proporzionate a quelle sulla tovaglia delle tavole XIII e XIV dell’Evangeliario.

 

Il Codex Purpureus Rossanensis

Il Codex in questione si annovera da tempo immemorabile tra i beni della Cattedrale e dell’Arcivescovado della città di Rossano Calabro, ed è custodito dal 18 ottobre 1952 presso il Museo Diocesano di Arte Sacra della città. Citato per la prima volta nel 1831 da Scipione Camporota, canonico della Cattedrale cui si deve una prima sistemazione e l’attuale numerazione con inchiostro nero delle pagine, fu portato agli onori delle cronache nazionali nel 1846  dallo scrittore e viaggiatore Cesare Malpica nel saggio “La Toscana, l’Umbria e la Magna Grecia: impressioni”. Nel 1880 gli studiosi tedeschi Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach pubblicarono a Lipsia lo scritto  “Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis”, presentando così l’evangeliario all’attenzione della cultura europea ed internazionale.

Numerosi studi e ricerche di notevole spessore scientifico, da più di un secolo, stanno impegnando storici, paleografi, studiosi d’arte bizantina, neo-testamentari ed esperti di filologia biblica nella risoluzione di due problemi filologici. Dove è stato realizzato il Codex e quando? Quando e da chi è stato portato a Rossano?

Per quanto concerne il primo quesito, la teoria che trova maggiore credito è che il manoscritto sia opera di una produzione scrittoria di un centro dell’Oriente. Sull’ubicazione precisa di tale centro, tuttora, non c’è conformità di pareri tra i ricercatori.

Quasi tutti i ricercatori suddetti concordano nel datare il codice intorno alla metà del secolo VI. Per quanto concerne il problema delle modalità e dei tempi di arrivo del Codex, la maggior parte degli studiosi asserisce che a condurlo a Rossano siano stati i monaci iconoduli, migrati dall’Oriente nell’Italia meridionale, quindi anche in Calabria, per sfuggire all’odio iconoclasta dei bizantini intorno alla metà del VIII secolo. Una di queste comunità di monaci si stabilì in uno dei tanti monasteri rupestri ipogei, costituiti da grotte arenaree del tipo lauritico, che formano la “Montagna Santa” della città jonica.

Il Codex Purpureus Rossanensis è uno dei più antichi evangeliari esistenti al mondo, reso oltremodo prezioso grazie alle sue bellissime miniature. Unico nel suo genere, offre le sue miniature in un continuum esclusivamente visuale, come una serie di affreschi sulle mura di un’antica basilica cristiana, di cui rimangono esempi ben noti risalenti al periodo tra il IV e il VI secolo. Esso presenta i resti di un indipendente ciclo di miniature relative alla vita di Cristo, il più antico rimasto in un manoscritto greco.

La struttura complessiva del manoscritto mostra che in origine si trattava di un esemplare, in uno o due volumi, dei quattro Vangeli, preceduti dall’indice dei capitula. Con buona approssimazione si può dire che la parte conservata rappresenta circa la metà dell’intera opera. È costituito da 188 fogli (376 pagine) contenenti l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco, mutilo quest’ultimo dei vv. 14-20 conclusivi dell’ultimo capitolo. Il formato attuale del manoscritto misura mm. 300×250; lo specchio scrittorio è di mm 215×215 ca.

I fogli sono di pergamena accuratamente lavorata, tinta di colore purpureo, con discromie che, talvolta, si possono ritenere originarie ma, in più casi, dovute a fattori diversi, soprattutto umidità. Il Codex Purpureus Rossanensis nella lista internazionale dei manoscritti rari ecclesiastici, porta il suffisso alfabetico Ф e il numero 043. Il “Codex Purpureus Rossanensis Σ” è anche conosciuto come il Rossanensis. Deve il nome “Purpureus” al fatto che le sue pagine sono rossastre.

La scrittura in cui è vergato il testo dei Vangeli è la maiuscola biblica: si tratta di forme grafiche che si caratterizzano a partire dal tardo II secolo d.C., definendosi in norme precise già nel III e resistendo nelle pratiche librarie fino al IX secolo, sia pure con differenziazioni interne, geografiche e cronologiche. Nel codice di Rossano la maiuscola biblica mostra caratteri artificiosi, modulo monumentale, forte chiaroscuro e orpelli decorativi che ne indicano, da una parte, la collocazione cronologica tarda, dall’altra la funzione ideologico-sacrale ad essa sottesa.

Le miniature conservate nel codice di Rossano sono quattordici. Di esse, dodici raffigurano eventi della vita di Cristo (La Resurrezione di Lazzaro, L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, Il colloquio con i sacerdoti e la cacciata dei mercanti dal tempio, La parabola delle dieci vergini, L’ultima cena e la lavanda dei piedi, La comunione degli apostoli, Cristo nel Getsemani, La guarigione del cieco nato, La parabola del buon samaritano, Il processo di Cristo davanti a Pilato, La scelta tra Gesù e Barabba), una fa da titolo alle tavole dei canoni andate perdute, e l’ultima è un ritratto di Marco, che occupa l’intera pagina.