Raccontare significa indagare. Intervista a Stefano Mordini

Intervista col regista marradese, classe 1968, ravennate d'adozione e nomade di spirito, per parlare del suo ultimo film, "Pericle il nero", in concorso a Cannes per la sezione "Un Certain Regard"

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Mordini mi aspetta seduto sul tavolino del bar, nel punto più trafficato di Ravenna, davanti a Piazza Baracca, quasi avesse nostalgia del traffico romano col quale convive da quasi dieci anni. Mi sorride, ma sembra un po’ stanco, si accende una sigaretta. Tra qualche ora partirà di nuovo.

 

Martedì sera ha presentato all’Arena delle Cappuccine di Bagnacavallo la sua ultima fatica, Pericle il nero, film fortemente voluto dal suo protagonista principale, Riccardo Scamarcio, che si è a tal punto appassionato al personaggio figlio della penna di Giuseppe Ferrandino, che ha prodotto il film con la sua casa Buenaonda, fondata assieme a Valeria Golino e Viola Prestieri.

Dopo Provincia meccanica, uscito nel 2005, la carriera registica di Mordini ha preso un abbrivio che fa ben sperare: dei tre film che ha diretto (senza contare i documentari) ha partecipato ai tre più importanti festival europei: Berlino, Venezia (con Acciaio, nel 2012) e adesso Cannes.

 

Pericle il nero è stato definito un film “noir esistenziale”, e senza dubbio le atmosfere umide e cupe alla Friedrich del Belgio e delle lunghe spiagge di Calais giustificano questa etichetta. Ma dietro alla categoria vive un personaggio singolarissimo, triste, solitario y final come pochi.

Pericle è l’uomo di Don Luigi, un camorrista piccolo piccolo, piegato sulle sue pizzerie a Liegi, che si serve di lui per umiliare i suoi avversari: Pericle, prosaicamente, di mestiere fa il culo alla gente. Da fuori, un mariuolo da quattro soldi (meglio, euro): capelli unti, codino, tossicodipendente afasico al limite dell’autismo; per arrotondare il magro stipendio accetta ruoli in porno amatoriali, perché, come dice lui, “il pesce lo comanda come vuole”.

 

Ma dietro gli occhi sfatti di questo convincente Scamarcio (a parte due o tre momenti in cui il suo irredimibile piglio da sciupafimmine sembra avere la meglio sul mafioso) vive una rabbia torpida e malinconica, che si nutre dell’odio per il suo passato e delle incertezze sul suo futuro. Speranze sopite, immature e infantili, carboni che verranno definitivamente ravvivati dall’incontro con Anastasia, durante la sua fuga. Ma andiamo con ordine.

 

Qual è stata la tua formazione? Da dove nasce la passione per il cinema?

“La mia passione per il cinema nasce casualmente. Non andavo al cinema da piccolo. Finite le scuole, ho fatto il militare all’estero, poi sono tornato qui, mi sono guardato attorno. Evidentemente c’era un’esigenza espressiva e l’ho trovata incontrando Maria Martinelli e Franco Calandrini. La Martinelli teneva un corso di regia, io ci andai e realizzai il mio primo cortometraggio che si chiamava Percorsi, che andò a Bellaria e ottenne una menzione speciale. Da lì abbiamo continuato a lavorare in società assieme, e siamo andati avanti.”

 

Chi ti ha insegnato a tenere in mano la telecamera?

“Maria Martinelli. Ma non c’entra solo la telecamera, c’entra anche la scrittura. In questo lavoro il mezzo non vale più niente. Vale l’urgenza che hai, lo sguardo, lo studio. E soprattutto l’indagine, che è uno degli elementi fondamentali per la carriera di chi vuole scrivere. Indagare. Spesso lo studio è condizionato: ci chiede di andare in una direzione. Indagare è diverso, si cercano nuove linee espressive, vai incontro a qualcosa di inaspettato, che non fa necessariamente parte di un pensiero unico. E per far questo ci vuole coraggio.”

 

Non esistono vere indagini che siano disoneste. Martedì sera, all’Arena delle Cappuccine di Bagnacavallo, infatti hai parlato dell’importanza di un cinema onesto. Per esempio, hai detto che non hai voluto sfruttare la “napoletanità” del soggetto perché non ti sentivi in grado di entrarci con onestà. Mi spieghi il perché?

“La cultura napoletana è una cultura molto forte e importante. Pensa solo alla storia della città, ai suoi costumi, al linguaggio… Tutto questo è parte di ogni racconto che si fa di Napoli. A maggior ragione, essendo questo un soggetto radicato alla città partenopea, girare lì, per me che non conosco la città, avrebbe significato imbastardire la narrazione. Ci sono addirittura alcuni piccoli atteggiamenti di scambio che sono diversi. In Romagna il concetto di gentilezza è molto chiaro, anche solo se vai a prendere il caffè. Se vai a Milano o a Napoli, già il rapporto è diverso. Anche questo ti identifica un territorio. Per potere affrontare il film in modo serio ed onesto, avrei dovuto abitare a Napoli per 10 anni.”

 

Allontanare da Napoli il racconto ti è quindi servito per sentirlo più tuo?

“Per poterlo maneggiare meglio, sì. E poi devi pensare che la storia era stata scritta nel ’91, e cominciava ad essere datata. Portarla all’estero ha significato anche ridargli una modernità. Ma credo che nella maggior parte dei casi, soprattutto per i romanzi contemporanei, sia importante ricollocare le situazioni. Penso che le aspettative del lettore vadano un po’ tradite: dare un nuovo sguardo significa dare un nuovo sviluppo a qualsiasi storia, e aiuta non rimanerle dietro. Pericle il nero, tra l’altro, è davvero un libro molto strano; si ispira nella scrittura alla beat generation, è un flusso di pensieri, il plot narrativo è molto particolare. Non è un caso che per tanti anni non si sia realizzato il film.”

 

 

Magari sbaglio, ma a me il tuo Belgio mi ha ricordato un po’ certe zone piatte e depresse della Romagna.

“Esattamente. Forse è uno sguardo inconscio che puoi realizzare solo dopo. Sono partito da dove avevo finito l’altro film, Acciaio, ovvero dalle acciaierie di Piombino. Da una classe operaia lasciata a se stessa, a territori di malvivenza. Non a caso, l’appartamento dove si rifugia Pericle, è una vecchia casa operaia, di mattoni, su cui incombono gli altoforni. È stato un elemento di continuità per poter dire a me stesso che stavo iniziando un nuovo viaggio. E poi, sì, ci sono territori come quelli per arrivare a Calais che, è vero, mi ricordano i luoghi e le immagini della mia adolescenza. Dopo tre film si finisce sempre per riproporre il proprio mondo e la propria storia…”

 

Hai parlato della solitudine come di un filo rosso di tutti i tuoi film.

“Sì. Questo, e il discorso fatto sulla classe di provenienza, l’elemento politico. Forse è per questo che faccio fatica a dirigere commedie.”

 

Come ha reagito Ravenna ai tuoi film, se ha reagito?

“Ravenna ha rifiutato Provincia meccanica, il mio primo film. Con tutta l’urgenza espressiva che aveva, spesso anche scorretta, di mettere in discussione la società borghese, l’educazione, non mi stupisco che l’abbia rifiutato. Ma credo che fosse un buon esempio di come la provincia, spesso straordinaria, ti chieda molto in cambio. Una sorta di costrizione culturale: ti protegge, ma ti chiede in cambio di stare dentro a determinate logiche, non è vero? Ma c’è anche un elemento più generale con cui non sono d’accordo. Trovo che negli ultimi dieci anni, con le film commission, i film spesso e volentieri vengano visti come qualcosa che ha a che fare col turismo: devi parlare bene del posto che vai a riprendere. Ecco, io trovo che il regista non abbia nessuna responsabilità in questo senso. Quando collochi la storia in un posto, questo diventa universale. Il regista decide che quella provincia valga tante altre province, tutte le province.”

 

Se Antonioni avesse dovuto rispettare la bellezza dei luoghi non avrebbe mai girato Deserto rosso.

“Ma certo. E poi Antonioni opera all’interno di una realtà ancora più connotata rispetto a Provincia Meccanica. Non si è posto nemmeno il problema di raccontare Ravenna, ma aveva piuttosto l’obiettivo di raccontare un livello esistenziale. Poteva essere qualsiasi altro posto. Poi, Acciaio non è stato quasi distribuito a Ravenna, e neanche Pericle il nero. Per cui sì, direi che con Ravenna faccio un po’ fatica. Ma non credo che sia una responsabilità della città: evidentemente il mio cinema non incontra il gusto del pubblico. E forse si potrebbe parlare del tipo di lavoro fatto in Comune sul cinema.”

 

Cosa intendi?

“Ad esempio, Marco Martinelli e il Rasi. Non dev’essere stato facile per lui costruire questo percorso. Ma adesso ha uno spazio, che ha conquistato con la sua bravura e ha educato un pubblico, impegnandoci un’intera vita. In provincia devi trovare una forma di comunicazione con chi ti sta attorno. Se non abiti più qui è più difficile seguire queste dinamiche.”

 

Da quanto tempo ti sei trasferito?

“Dopo Provincia Meccanica. Ma qui ho amici e torno sempre volentieri. Non è una terra dimenticata, per me. Il problema è il lavoro che mi ha portato via.”

 

È impossibile fare qui il tuo lavoro.

“Mah, anche questo è vero e non è vero. Ci sono stati grandi registi, come Olmi, che sono riusciti a portare il cinema fuori delle grandi città, e che, organizzando scuole, si sono costruiti realtà diverse attorno a loro. Se il lavoro che ho fatto servisse mai di stimolo a qualcuno che cresce qui a Ravenna, gli consiglierei di provare a costruirsi una dimensione che possa tenerlo qui. Non è necessario andare a Roma.”

 

Ti manca questa città o vivi male a Roma?

“No, io sono sempre stato abituato a spostarmi. I miei mi hanno portato in giro per tutta Italia. Sono cresciuto qui nell’adolescenza e trovo che sia una terra straordinaria. Che abbia un livello civile paradisiaco. L’educazione delle persone, il rispetto per l’altro e per la cosa pubblica, sono cose straordinarie. Sono felice di essere cresciuto qui nel momento in cui raccogli i veri valori.”

 

La stessa gentilezza l’hai trovata in Belgio o in Francia? È più facile girare là?

“No. È più facile non per maggiore gentilezza, ma per una diversità culturale. Se superi una certa linea che separa noi PIGS dal Nord, cambia, in generale, l’approccio alle cose. C’è una maggiore libertà nelle riprese, la gente non ha paura di mostrarsi. Tutto diventa più facile. Ma ciò ha anche un costo, intendiamoci. Prendiamo il famoso reddito di cittadinanza in Belgio. Lì si è tradotto in un disastro. La maggior parte dei ragazzi non cerca più un lavoro. Chi te lo fa fare di andare a fare il barista a 800 euro al mese quando te ne arrivano già 1000 dallo Stato? Quindi si lavoricchia per sei mesi, in qua e in là, e non avendo l’urgenza di specializzarsi e formarsi, questi ragazzi diventano perenni stagisti, sempre alla prima esperienza. E questo è grave: una disgregazione sociale raccontata molto bene dai fratelli Dardenne.”

 

 

 

Ho trovato Pericle un personaggio convincente proprio perché contraddittorio. Ho letto varia critica, ma non sono stato molto d’accordo. Si parla di cambiamento repentino del personaggio, di incongruenze psicologiche: secondo me questo modo di raccontarlo lo ha reso più complesso, anche grazie all’interpretazione di Scamarcio. Ma ti chiedo, io che non l’ho letto: il personaggio del film è diverso da quello del libro, a livello psicologico?

“È vero, abbiamo voluto affrontare questo personaggio con la libertà di renderlo contraddittorio. Come secondo me è l’animo umano, nelle sue ombre e nelle sue luci. Ci siamo presi la responsabilità di un personaggio che non era stato formato fino in fondo. Scopre le cose della vita in modo quasi infantile. È un animale, Pericle. Abbiamo dato spazio alla sua animalità. In questa ricerca, tenendo sempre presente l’idea di costruire passo a passo l’identità del personaggio, Riccardo ha lavorato in modo straordinario. Proponendo soluzioni, respirando quella realtà. Secondo me Riccardo è molto bravo nell’interpretazione, quasi più per quello che non fa rispetto a quello che fa.”

 

Una recitazione in levare?

“Non solo. Quello che tu non vedi, lui lo sta facendo: è come se il personaggio avesse vita al di là delle riprese, come se l’avessimo ripreso soltanto per un momento; anche se io sento che c’è vita prima e dopo, tra una scena e l’altra. Questo ha a che fare col respiro dell’attore, non con il regista.”

 

Ho trovato che l’epiteto “il nero”, già presente nel titolo del libro, sia fuorviante. Pericle non è nero, o meglio, non è solo nero.

“Sì, è fuorviante. Il film vuole indagare sulla sua parte scura, e finisce per aprirla. Non bisogna aver paura della parte scura, bisogna attraversarla. D’altronde, Pericle è un personaggio capace di incredibili dolcezze, quasi di infantilismi. Come quando Signorinella gli parla della storia della madre. Lui la ascolta, ma si vergogna, come un bambino quando sente dire che sua madre è brutta.”

 

Insomma: un animale, ma anche un bambino.

“Spesso l’animalità è legata all’istinto, e l’istinto è primordiale nei bambini. Dopo di che, si cresce, e si cercano delle strutture capaci di poterlo controllare. In alcuni casi è un delitto, in altri è un codice per rendere possibile la vita sociale. Certo è che con la violenza non si schiaccia questa parte primitiva. Con la cultura si riesce ad orientare, a mantenerla viva.”

 

(SPOILER ALERT) Ma Pericle, secondo te, alla fine schiaccia la sua parte animale, oppure no?

“Secondo me Pericle, alla fine del film, è un personaggio che ha finalmente costruito una propria identità. La cosa straordinaria è che rimane infantile fino in fondo, perché quando telefona a Anastasia e le dice che ha i soldi, ritorna a Calais pensando di avere una famiglia. Quando invece è chiaro che non è così, come gli ricorda lei. Però è un inizio di autonomia, tanto che decide di non fare il culo a Don Luigi. Decide di essere altro. Ecco, quello è un gesto di consapevolezza. Il suo percorso è un esempio classico di drammaturgia, quello che gli americani hanno definito restaurativo: il personaggio si è ‘restaurato’, perché ha deciso di non fare quello che per cui è stato costruito. Diventa altro.”

 

a cura di Iacopo Gardelli

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