Gianluca Dradi, ritratto di un uomo mite che dice: rispetto, altruismo, aiuto reciproco convengono

Intervista al Preside del Liceo Scientifico sulla scuola, i giovani, i social, il buonismo, il cattivismo e sulla fatica di educare al rispetto e alla tolleranza quando tutto sembra muoversi in direzione contraria

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Tutto è cominciato con una frase stupida e carica di violenza. Una frase come se ne vedono e se ne sentono tante. Troppe, di questi tempi. Poteva lasciar perdere il Preside del Liceo Scientifico Gianluca Dradi quando gli hanno riferito di quella frase. Poteva dire, è una ragazzata. Non l’ha fatto. E ha fatto bene. Ha trasformato un gesto immaturo e incivile in un momento di crescita collettiva per un’intera comunità. Ha deciso che quella frase doveva rimanere lì, come “pietra d’inciampo”, come monito di quanto sia vile ogni forma di discriminazione. 

 

E grazie a questa scelta è diventato popolare. Ha ricevuto quasi mille attestati di stima. L’hanno chiamato in tv. “Non ho fatto nulla di eroico, – si schermisce – ho solo fatto una cosa di buon senso.”

Nel frattempo, su quel muro la famosa frase è stata arricchita di nuovi contenuti, si fa per dire. “Il preside è gay” ha preso una connotazione chiaramente di valore calcistico perché qualche tifoso ha aggiunto “meglio gay che laziale”.

Gianluca Dradi ha 57 anni, è laureato in giurisprudenza, è stato avvocato per 22 anni, è sposato, ha una figlia. Per 11 anni amministratore pubblico prima come Presidente del Consorzio dei Servizi Sociali e poi nella prima Giunta Matteucci come Assessore; a 50 anni è diventato Dirigente scolastico o Preside, che dir si voglia. 

 

È un uomo colto, garbato, mite. Un uomo che, in un mondo dove è stato inventato il neologismo dispregiativo “buonismo”, va controcorrente e dice: dobbiamo tornare a parlare di bontà, di equilibrio, di senso della misura, di tenere a freno le pulsioni bestiali, se vogliamo dirci comunità e società civile. Cita Brecht, Freud, Darwin, Bobbio per pescare le parole giuste e per dare più forza a quelle parole.

Ama il suo lavoro e il mondo della scuola. E proprio per questo lancia il suo appello alla società civile e a quella politica e dice: fermatevi, fermate la deriva della cattiveria dilagante. Se vogliamo insegnare ai ragazzi i valori del rispetto, della tolleranza, dell’inclusione bisogna che questi valori vivano non solo cinque ore al giorno a scuola, per quanto è possibile, ma debbono tornare ad essere vissuti e praticati anche fuori dalla scuola. In politica, sui social, sui giornali. Ovunque. Dradi approfitta della notorietà che ha assunto in questo frangente, per gettare questi semi, sperando che qualcuno li faccia propri, li coltivi e li faccia crescere. Perchè la bontà paga, mentre la cattiveria avvelena i pozzi.

 

 

 

L’INTERVISTA

Preside Dradi, nel mondo della scuola è arrivato tardi, per vocazione o per cosa?

“Io sono un animo un po’ inquieto, ho bisogno di novità, se no mi annoio. Per questo ho sempre fatto più cose contemporaneamente. Soprattutto nel campo del sociale. Ero anche docente di diritto, però esercitavo per poche ore, facendo altri mestieri. Ma l’ambiente della scuola e l’impegno nel sociale mi sono sempre piaciuti. Arrivato all’età di 50 anni mi andava di sperimentare qualcosa di diverso dall’avvocato, una professione meno solitaria, più dentro le cose della società per dare un contributo.”

Si sentiva di dover svolgere un ruolo di maggiore responsabilità sociale.

“Sì. Casualmente è stato bandito il concorso da dirigente scolastico, è andato bene e quindi sono qui.”

Quindi si annoiava anche a fare l’amministratore pubblico e il politico?

“La politica è un po’ una delusione. È un mondo in cui quasi tutti oggi raccontano la loro piccola parte di falsità.”

 

Partiamo dalla ormai nota vicenda della scritta sul muro del Liceo Scientifico. Come si è sentito quando l’ha vista o gliela hanno fatta notare?

“Me l’hanno fatta notare. I muri delle scuole sono pieni di scritte e uno non ci fa neanche caso. Era un sabato mattina e lì per lì non ci ho dato peso, avevo molte cose da fare a scuola. Solo nella pausa pranzo ho avuto il tempo per ripensare a questo episodio e mi sono detto che dovevo reagire a un gesto di inciviltà; così ho scritto quel post su Facebook che non immaginavo francamente potesse avere tutte le conseguenze che ha avuto.”

In quel momento si è sentito tradito dai ragazzi? Sconfitto nel suo ruolo di educatore? Oppure sono parole troppo forti?

“Sì, sono parole eccessive. Io mi sforzo di fare bene il mio lavoro e, fondamentalmente, credo mi sia riconosciuto. Poi accontentare tutti è impossibile, come in politica. E qualcuno che dà libero sfogo a certi istinti può sempre esserci. Ma questo non inficia tutto il resto, cioè il buon lavoro che facciamo con i ragazzi.”

Lei ha detto: quella scritta non va cancellata ma lasciata lì come pietra d’inciampo. Una scelta che ha fatto scalpore per la sua intelligenza e per il coraggio, e che ha raccolto tantissimi consensi.

“Sì. Anzi, parlandone con il nostro Sindaco Michele de Pascale, è venuta a lui l’idea di trasformare il muro dove è comparsa la scritta in un murales dedicato a questo tema e stiamo studiandone le modalità.”

 

Insomma quel muro diventerà un simbolo e una testimonianza della battaglia per la civiltà, contro omofobia e discriminazioni. Ma a lei sono giunte anche tante attestazioni di solidarietà da parte dei ragazzi e dei genitori. È così?

“Assolutamente sì. Fra messaggi su Facebook, lettere e messaggi privati, ho ricevuto quasi un migliaio di attestazioni e nessuna offensiva. Devo dire che sono rimasto davvero stupito, perché di questi tempi mi aspettavo che qualcuno potesse cavalcare l’episodio per dare libero sfogo al lato peggiore di sé. Per fortuna non è accaduto.”

A distanza di un mese, ripensando a tutta questa vicenda che morale può trarre?

“Ritengo di non avere fatto francamente nulla di straordinario. La risonanza così elevata di questo episodio è un indice di malattia: la società italiana attraversa una fase così buia che mi vengono in mente le parole di Bertolt Brecht nella poesia “A coloro che verranno”: Davvero vivo in tempi bui… Quali tempi sono questi quando discorrere di alberi è quali un delitto perché su troppe stragi comporta il silenzio?! In altre parole viviamo in una società così incattivita che un gesto normale di puro buon senso sembra un gesto eroico, ma non lo è.”

In un mondo di nani, una persona normale diventa un gigante.

“Esattamente.”

 

Veniamo al ruolo della scuola nell’educazione delle nuove generazioni. Qual è lo stato dell’arte? Pensa che l’istituzione educativa sia definitivamente in crisi oppure no? C’è speranza…

“La scuola ha compiuto in questi decenni grandi passi avanti e ha raggiunto sostanzialmente l’obiettivo positivo di diventare una scuola di massa, democratica e inclusiva. Se penso, per esempio, al tema degli studenti diversamente abili, la nostra scuola ha raggiunto un’offerta inclusiva straordinaria. Ma la struttura della scuola è rimasta troppo rigida e così si paga un prezzo: quello di una sorta di segregazione formativa, cioè i ragazzi più dotati frequentano i licei tradizionali, gli altri le scuole più professionalizzanti. Questa divisione, che penalizza le scuole professionali, dove si concentrano tanti problemi, è sintomo di qualcosa che non va. L’altro sintomo è il tasso di abbandono della scuola: è calato negli anni ma è ancora troppo alto rispetto agli standard europei.”

Insomma grandi passi avanti ma ora ci vorrebbe una riforma. Però…

“Capisco che dopo le riforme di questi anni, che non sono andate bene, parlare ancora di riforma della scuola sembra una follia. Però abbiamo mancato la riforma dei cicli di Berlinguer, che sarebbe invece il caso di riprendere, per avere compiutamente una fase dell’obbligo scolastico con una formazione di base omogenea per tutti, in modo da evitare ai ragazzi di scegliere il loro indirizzo troppo presto. E poi io penso a una fase finale di formazione che andrebbe ripensata completamente. Io non suddividerei i ragazzi per classi ma per percorsi, come all’università: il corso di italiano, di scienze, di matematica… Chi viene bocciato in una materia dovrebbe recuperare solo quella e non tutto l’anno.”

Sarebbe una rivoluzione.

“Sarebbe un’organizzazione più moderna e ridurrebbe molto la dispersione scolastica.”

 

Scuola, famiglia, tribù giovanili, social, media, società… alla fine la scuola come agenzia educativa sembra il vaso di coccio fra tanti vasi di ferro… o non è così?

“Assolutamente sì. Viviamo in una società incattivita, con una cattiveria pulviscolare, che va oltre il rancore. È una cattiveria frutto di tante paure. La paura degli immigrati, della perdita del posto di lavoro, della microcriminalità, della mancanza di prospettive, cioè la sensazione di rimanere bloccati e di non avere possibilità di crescita personale. Paure per di più teorizzate da alcune forze politiche o da intellettuali veri o presunti, al punto tale che se oggi sei aggressivo, se dici di getto tutto quello che ti passa per la testa sei sincero, mentre se cerchi di essere equilibrato e di esprimere un pensiero meditato sei un ipocrita. Ammesso e non concesso che questa cosa della sincerità sia vera, Freud nel suo “Il disagio della civiltà” ci spiegava che l’uomo per beneficiare di una società civile deve rinunciare a qualcosa, deve pagare un prezzo: e il prezzo da pagare è quello di limitare la propria libertà nel realizzare gli impulsi più bestiali. Per stare in società insieme agli altri e in una società civile, occorre quindi avere un senso del limite. Per di più la bontà nel senso dell’altruismo, conviene. Questo ce lo spiega Darwin: le comunità che sviluppano comportamenti altruistici, di protezione e aiuto reciproco, sono più attrezzate ad affrontare la sfida della sopravvivenza. Del resto, anche senza bisogno di Darwin, siamo in una terra, l’Emilia-Romagna, in cui abbiamo sperimentato e vissuto per tanti anni una forma di coesione sociale che ha dato i frutti migliori e ci è convenuto.”

Torniamo alla scuola vaso di coccio.

“L’appello a una società più buona lo rivendico da uomo di scuola. Perché noi abbiamo il compito nella scuola di educare alla cittadinanza, al rispetto, alla legalità, all’inclusione. Anche il ministro attuale, Marco Bussetti, nelle sue priorità indica fra gli obiettivi proprio l’inclusione. Però a scuola i ragazzi ci sono 5 ore al giorno. Mentre nelle altre 19 ore sono immersi in tutt’altro. Per cui se dalla società arrivano ai ragazzi messaggi completamenti diversi, allora, come si diceva, la scuola rischia di essere il vaso di coccio. Abbiamo bisogno anche di un clima diverso nella società, in famiglia, sui social, nello sport e così via, per poter realizzare il nostro programma educativo nella scuola.”

 

 

Giovani, social, società della comunicazione e dello spettacolo… la situazione sembra sfuggita di mano. Facebook, Instagram, Youtube e tutti gli altri social sono diventate piazze ingovernabili, spesso terreno di coltura di odio, razzismo, violenza, discrimazione, delle peggiori pulsioni… Tanto più pericolose e diseducative per i più giovani, che hanno meno strumenti… che si può fare, al di là dei corsi sulla alfabetizzazione digitale e di tutte le cose che si fanno per educare all’uso corretto dei social… che però ho impressione contino troppo poco?

“Purtroppo sì. I vari corsi che facciamo sono comunque utili, perché danno informazioni ai ragazzi e ricordano loro che a partire da 14 anni sono penalmente responsabili. Per cui se insultano qualcuno su Facebook non è che non ci siano conseguenze, a parte il fatto riprovevole in sé: sono responsabili e possono essere chiamati a rispondere di un reato. Ma anche qui, siamo sempre alle solite 5 ore su 24 in un giorno. Che cosa fanno i ragazzi prima e dopo la scuola? Chi li educa e li indirizza? Il clima di rispetto, inclusione, confronto civile che cerchiamo di creare nella scuola dovrebbe poi ritrovarsi a casa, sui social, in tv, ovunque. Ma non è così. Per cui l’appello alla società civile oltre che a quella politica ad adottare un nuovo linguaggio, uno stile di relazioni più civili, rispettose, tolleranti, equilibrate è assolutamente necessario.”

I social aumentano anche il senso di solitudine dei ragazzi.

“Esattamente, rischiano di fare proprio questo. Soprattutto perché in tutte le rappresentazioni di sé che i ragazzi mettono in scena sui social, di solito si fanno passare per forti e vincenti. Non mettono in rilievo le ansie, le incertezze, le fragilità. Si mette in scena un sé bello e vincente. Questo alimenta in tutti gli altri, nella solitudine della fruizione del messaggio, un senso di inadeguatezza e di frustrazione. Perché nessuno è vincente in realtà.”

È l’altra faccia della società dello spettacolo. Se il modello è quello dei simboli dello sport, della musica, del cinema… allora nessuno sarà in grado di misurarsi con quel modello. Siamo tutti perdenti.

“Esattamente. Per cui poi la reazione alla frustrazione è anche quella di cercare scorciatorie e sviluppare rancore e aggressività quando non si raggiungono gli obiettivi.”

 

 

E come la mettiamo con i cattivi maestri, in senso lato? Tutti ormai parlano come mangiano, in tv, sui social, a partire dai politici… volgarità, offese, linguaggio violento e incitamento alla discriminazione… che si fa?

“Torniamo a Freud, al senso del limite. Bisogna tornare alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e alla costituzione che nasce dalla rivoluzione francese, dove si parla di fraternità, addirittura di fraternità. Siamo fratelli, cioè diversi ma uguali in dignità e valore. E dobbiamo essere solidali gli uni con gli altri per essere comunità. Se viene meno questo c’è la logica dell’egoismo individuale, e poi delle piccole patrie, del nazionalismo, e così via. Viene meno la coesione sociale, l’essere comunità.”

Che fine hanno fatto invece i buoni maestri? Sono diventati afoni? I social hanno distrutto ciò che restava della categoria degli intellettuali ed esaltato la categoria dei cretini o peggio?

“Eh, sembra proprio che sia così. Ma qui c’è una grande responsabilità anche di voi giornalisti. Ai cretini bisognerebbe dare meno rilievo. Per esempio, sui giornali locali si dà spazio a tutti i gruppi politici e ai singoli esponenti o consiglieri comunali anche quando dicono che una cosa è rossa mentre invece tutti sanno che è nera. Quella non è un’opinione, non va riportata come un’opinione, va riportata per quello che è: una stupidaggine. È un esempio banale, ma voi giornalisti dovreste fare un lavoro di interpretazione, di mediazione della realtà per raccontarla al pubblico. Anche l’informazione ha la sua parte di responsabilità.”

 

Concordo assolutamente. Anche noi siamo parte del sistema, anche quando non ci piace, come nel mio caso. Ma veniamo al rapporto scuola – famiglia, come si pone oggi? Una volta la scuola era autorevole e soggiogava la famiglia. Oggi la scuola ha perso questa autorevolezza e i genitori hanno un atteggiamento spesso eccessivamente protettivo verso i figli e rivendicativo verso la scuola, per usare degli eufemismi.

“È vero. Ma è anche più complesso. Ci sono scuole e scuole e famiglie e famiglie. Ci sono famiglie fin troppe attente ai loro figli, in cui i genitori tendono a fare anche la parte dei figli. Non è raro che le mamme vengano a parlare con me dei loro ragazzi che hanno 16-17 anni e io immancabilmente dico loro, bene, mi ha fatto piacere parlare con lei ma adesso voglio sentire cosa ne pensa suo figlio. Deve affrontarlo lui il problema se no non crescerà mai. E per la verità mi capita ogni tanto di sentire da amici docenti universitari che lo stesso problema si presenta addirittura all’università. Dall’altro lato ci sono invece scuole in cui le famiglie non si vedono mai. Una volta la scuola era più autorevole ma anche più autoritaria, perché la società era più gerarchica. Quel ruolo era, come dire, imposto. Oggi il fatto che la famiglia sia in rapporto più dialettico con la scuola in sé non è un fatto negativo. E questo obbliga la scuola a conquistarsi la fiducia delle famiglie, a lavorare di più e meglio. Ma certo ancora un equilibrio non c’è.”

Ne abbiamo già parlato, negli ultimi anni sono stati coniati l’aggettivo buonista e il sostantivo buonismo in senso dispregiativo… come se essere buoni – cosa che per secoli è stata insegnata da generazioni di genitori e educatori ai ragazzi – fosse improvvisamente diventata una bestemmia… come se essere cattivi fosse una virtù… come si è arrivati a questo rovesciamento di valori? E perché in pochi anni questo rovesciamento è stato accettato?

“È una domanda troppo complessa. Non sono un sociologo né un filosofo: sul come e il perché non so rispondere. Torno al fatto che di fronte a questa società incattivita dobbiamo tornare a riscoprire alcuni valori che sono alla base del patto sociale, di ciò che tiene insieme una società.”

 

 

Le paure non governate, provocate dagli effetti perversi della globabilizzazione, hanno provocato questo rimescolamento di valori sia a livello individuale sia nelle dinamiche sociali. Dall’altra parte io vedo lo straordinario esplodere dei social, la piazza elettronica in cui milioni di persone danno libero sfogo alle loro peggiori pulsioni, spesso coperte dall’anonimato. Quel rovesciamento di valori è il combinato disposto di questi due epifenomeni che nascono separatamente e poi fatalmente s’incontrano. Potrebbe essere questo?

“Sì. Un’altra ragione può essere costituita dalla debolezza delle nostre élites politiche attuali. I politici del passato, da un Moro a un Berlinguer, sono dei giganti rispetto a quelli attuali.”

A proposito di buoni e cattivi, c’è stato un momento nella storia del Novecento in cui i cattivi – Mussolini, Hitler e Stalin – hanno sedotto milioni di uomini e hanno preso il potere. Non c’è il rischio che questa cosa ritorni, nel clima pesante che viviamo, sotto altre spoglie? Intendo il rischio che ritorni la seduzione dell’uomo forte che dovrebbe mettere a posto tutto e che invece finisce per non mettere a posto nulla.

“Sì, c’è il rischio che ritorni. Con la differenza che oggi siamo meno attrezzati di fronte a certi pericoli rispetto a 70 anni fa, quando c’erano i partiti di massa che subito dopo la guerra avevano grande autorevolezza, una grande base popolare, ideologie ben strutturate e rappresentavano i capisaldi della nuova democrazia. Quei partiti svolgevano un ruolo di guida delle masse, delle comunità, delle persone. Oggi invece le persone sono sole, sole davanti alla tv, sui social, senza più luoghi di confronto strutturati. Non c’è più alcuna mediazione fra la gente, il popolo e il capo. E tutto questo rende più manipolabile l’opinione pubblica.“

 

E poi direi la memoria, che è andata perduta. Fascismo, nazismo e stalinismo sono così lontani nel tempo che quasi non si conoscono e non fanno più paura. 

“Pensiamo al fatto che all’esame di maturità hanno addirittura abolito la traccia storica. Invece bisognerebbe studiare di più la storia del Novecento per non perdere la memoria.”

Essere buoni sembra essere oggi sinonimo di debole, stupido, imbelle, coglione, ipocrita… e i buoni non sembrano nemmeno avere la forza per reagire e rivendicare la bontà come virtù dei forti… alla fine per farsi sentire debbono quasi urlare e mettersi sullo stesso piano degli altri… non trova anche questo bizzarro.

“Certo. Essere tolleranti, predicare il rispetto degli altri, equivale secondo qualcuno a essere ipocrita. Sarebbe un mezzo delle presunte élites per far passare certi disegni non meglio precisati. Mentre essere immediati, di pancia, cattivi, significa essere sinceri. È uno stravolgimento della realtà. Dobbiamo reagire come società civile. Mi viene in mente il saggio di Bobbio sulla mitezza che non è affatto una forma di debolezza o di rinuncia all’impegno e alla determinazione. Anzi. Pensiamo a figure come Gandhi o Mandela che hanno applicato la mitezza alla politica con grade forza e determinazione e con grandi risultati. Per non parlare del rapporto educativo. Essere equo. Capire l’altro, prendersene cura, ha effetti educativi più profondi e duraturi rispetto alla semplice rigidità o cattiveria immediata.”

Lei in ogni caso non ha intenzione di perdere la sua mitezza, se non sbaglio.

“Assolutamente no.”

Da tempo l’Italia sembra un laboratorio politico piuttosto interessante e per certi versi inquietante. Che cosa è diventata l’Italia di oggi, secondo lei? È preoccupato della piega che ha preso il nostro paese?

“Il mondo si è un po’ italianizzato. Pensiamo a Trump in America o a certi movimenti xenofobi e razzisti che hanno preso piede in tanta parte d’Europa. Dunque il male non è solo italiano. Sono molto preoccupato, ovviamente. L’unica speranza è nell’educazione e nelle nuove generazioni. Ma il progetto educativo avrebbe bisogno di un supporto anche fuori dalla scuola, proprio quello che oggi manca, come dicevo. C’è un proverbio africano che dice che per educare un bambino ci vuole un intero villaggio. Non basta dunque un solo soggetto, una sola agenzia educativa. Dunque a noi educatori non resta che resistere, continuare a fare al meglio il nostro lavoro, e fare appello alla società civile affinchè faccia prevalere i valori positivi e non quelli negativi.”

 

Intervista raccolta da Pier Giorgio Carloni

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