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A, B, C DELLA DEMOCRAZIA. C COME COSTITUZIONE / “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”? C’è un nesso fra democrazia in bilico e lavoro malpagato, lavoro in nero, lavoro precario…

Il primo maggio, la festa del lavoro. Una festa che quest’anno è stata seguita con particolare attenzione, anche dai media, e con parole forti, a partire da quelle pronunciate dal Presidente Mattarella: “Il lavoro non è merce, è dignità della persona”. Una sintesi che in modo efficace dice molto. Dice quello che è il cuore della Costituzione. Il primo comma dell’Articolo 1 afferma “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. E, a seguire, tutta la Costituzione ha al centro la dignità di ogni singola persona. Sergio Mattarella, prima di essere un parlamentare, e oggi, Presidente della nostra Repubblica, è stato, e continua ad essere, un costituzionalista. È quindi ben consapevole della portata storica delle leggi e delle Costituzioni, che sono il risultato di contesti via via mutevoli nel corso del tempo.

Impensabile, in tempi storici precedenti il 1948, che il lavoro potesse essere indicato come base del patto fondativo di uno Stato. Per millenni il lavoro è stato visto come un peso doloroso e umiliante, da affidare ai piani bassi dell’umanità, ai senza voce. Chi invece aveva voce, non lavorava, ma svolgeva attività, espressione sicuramente più raffinata. Il nobile mestiere delle armi, del comando nelle sue molteplici forme, quella religiosa compresa, o l’attività dell’artista nelle varie arti, per quanto non nobili come quella regale, militare o religiosa. Con una bella eccezione, coltivata in un mondo a parte, “ORA ET LABORA”, del geniale San Benedetto. Ma il suo insegnamento non fu rispettato in modo rigoroso. Presto, e spesso, conversi o contadini sostituirono i monaci nel labora. Ma l’idea fu geniale e la ritroviamo, in prima battuta, nel pensiero economico di San Francesco, e, a seguire, nella teoria marxiana del superamento della divisione del lavoro. Teoria fra le più dimenticate, anche nei mondi che a Marx si sono ispirati.

San Benedetto

Allora, quale lunga storia ci ha portato, invece, a una importante festa del lavoro, rispettata quasi ovunque nel mondo?

Il primo maggio è una festa che Maurizio Maggiani ha ricordato con parole di grande intensità, l’intensità di un poeta che ripensa a una emozione della sua infanzia. Il padre vestito a festa, quel giorno, con l’orgoglio del lavoratore che dà al suo lavoro grande importanza, a proposito di dignità. Il suo lavoro operaio lo rendeva uomo libero. La sua era una azione libera condotta da un uomo libero, che non vendeva se stesso come merce, appunto. Offriva una prestazione per averne in cambio una giusta remunerazione, per una vita dignitosa. Principi che, pochi anni dopo la nascita di Maggiani, furono scritti a chiare leggere in molti articoli della Costituzione. Due esempi. Articolo 4, primo comma “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Articolo 36, primo comma “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Lavoro e libertà, due principi finalmente scritti l’uno accanto all’altro. Non a caso principi a cui grandi sindacalisti come Giuseppe Di Vittorio (foto sotto), padre Costituente, diedero enorme valore, chiedendone poi il rispetto e l’applicazione.

Giuseppe Di Vittorio

Furono proprio gli ultimi, i senza voce, ad alzare, a un certo punto della storia, la voce e, attraverso prove durissime, riuscirono a farsi ascoltare. La festa del primo maggio la dobbiamo a loro, con una storia che ha inizio nel secondo Ottocento. Sia Maurizio Maggiani che Massimo Cacciari hanno ricordato questo inizio, da noi contemporanei trascurato, non di rado immemori perché sotto il peso dell’essere, il nostro, un tempo senza storia, titolo di un recente e importante libro di Adriano Prosperi. Se avessimo consapevolezza dei tempi lenti della storia, e di come alcuni risultati siano diventati tali attraverso traversie, ostacoli, che li ha a volte cancellati o sospesi, forse riusciremmo ad essere più forti nell’affrontare ciò che del presente ci sconcerta e avvilisce. Non è la prima volta che la storia si è messa di traverso rispetto a bisogni, a richieste di giustizia ed uguaglianza, a diritti sentiti come necessari, ma negati da chi vedeva – e vede – in diritti richiesti un indebolimento dei propri poteri o privilegi. Le otto ore, per esempio – una delle richieste che più ha mobilitato il popolo lavoratore – sono all’origine della festa del primo maggio.

L’idea di istituire una festa nacque nel corso di un congresso della Seconda Internazionale, a Parigi, nel 1889. Luogo, Parigi, e millesimo,1889, il primo centenario della Rivoluzione, sicuramente favorirono pensieri rivoluzionari. Ma fu un evento grandioso e tragico accaduto pochi anni prima, oltre Atlantico, a dare l’idea. Il primo maggio del 1886 a Chicago fu indetto uno sciopero che ebbe grande successo, con la richiesta della giornata lavorativa di otto ore. Vi parteciparono centinaia di migliaia di lavoratori che si astennero dal lavoro per più giornate. In seguito a disordini, ci fu una violenta repressione e molti lavoratori furono uccisi dalla polizia (nell’immagine).

Chicago

La festa, dopo la decisione della Seconda Internazionale, gradualmente si diffuse in varie parti del mondo. In Italia, già all’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento. Nel 1923 Mussolini, al governo da qualche mese, decise di anticipare la festa al 21 aprile, data attribuita alla fondazione di Roma. Un ex socialista, Mussolini, prendeva le distanze da una data che aveva illuminato le forze socialiste in tante parti del mondo. Cominciava in un modo ai miei occhi comico la costruzione del mito dell’Impero, di Roma, all’inizio Repubblica, poi Caput Mundi. Una decisione, questa, presa per buona dai fan di Mussolini. L’innamoramento acceca un popolo adorante, e non fu né la prima né l’ultima volta. Si festeggiava il lavoro il 21 aprile nella Roma antica? Si lavorava solo otto ore quel giorno, nella culla della civiltà? Domande retoriche. Ma non fu retorica una tradizione mantenuta, anche dopo il 1923, almeno dalle nostre parti. È memoria popolare, tramandata con allegria, che il primo maggio in molte famiglie antifasciste, operaie e non solo, si mangiavano i cappelletti, anche se con accorta prudenza. A volte, se tavole imbandite venivano viste, dopo i cappelletti, bastonate. Scene ridicole, se non fossero drammatiche.

Il primo maggio tornò ad essere festa nel 1945, subito dopo la Liberazione. Ho visto, con soddisfazione, la visita di Schlein e di Conte, il primo maggio scorso, a Portella della Ginestra, località non lontana da Palermo e da sempre vicina alla nostra memoria. Il primo maggio del 1947, a Portella, ci fu una grande manifestazione di protesta contro i latifondisti e a sostegno della riforma agraria. Una banda armata sparò sulla folla, numerosi furono i morti. Il braccio armato fu, con i suoi uomini, il bandito, e mafioso, Salvatore Giuliano. Il seguito è fitto di eventi confusi e avvolti in misteri mai del tutto sciolti, dalla uccisione di Giuliano stesso, sempre fuorilegge, nel 1950, all’avvelenamento in carcere del suo luogotenente Pisciotta, che forse aveva deciso di parlare. Il tutto coperto dal segreto di Stato, fino al 2016. Le ipotesi prevalenti. L’eccidio di Portella ebbe mandanti plurimi: latifondisti e forze che vollero fermare la crescita del movimento contadino, colpito nel giorno della festa del lavoro, e delle forze di sinistra che nelle elezioni regionali siciliane dell’aprile del 1947 ebbero un buon esito. Colpire con violenza, seminare paura, metodi che continuarono ad agire anche nei successivi decenni della storia della Repubblica, come lo storico Davide Conti ha documentato.

Memoriale di Portella della Ginestra

Ci furono, inoltre, scelte, in questo caso non cruente, ma suadenti, che cercarono di entrare in competizione simbolica con la festa del primo maggio. Il 19 marzo da secoli era una festa nel calendario dei paesi cattolici, la festa di San Giuseppe. Nel 1955 Papa Pio XII, considerando che la tradizione ricordava che il padre putativo di Gesù era falegname, dichiarò il 19 marzo festa di San Giuseppe lavoratore. Un tentativo ingenuo, forse, di depotenziare il primo maggio? In ogni caso, ricordo che era una simpatica giornata festiva perché era tradizione passarla con deliziosi picnic in pineta. L’ultimo dei nostri pensieri era che San Giuseppe fosse un falegname, quindi un lavoratore. Invece, non mi piacque l’abolizione della festa del 19 marzo, nel 1977. Rimpiansi i picnic in pineta. E, ancora meno, mi piace che, da molto tempo, riti consumistici abbiano invaso questa festa, un tempo affettuosa anche se povera. 19 marzo, la festa del papà, ovvero spendere denaro per doni superflui.

Ma la festa del primo maggio continua ad esserci, ci costringe a riflettere sul lavoro, termine che in Costituzione definisce ogni genere di attività, e a comparare il lavoro lì disegnato e il lavoro nella realtà. La realtà ci dice che negli ultimi decenni non solo le democrazie liberali sono in bilico, ma che il lavoro, quello che c’è e quello che manca, è lontano dalle condizioni di dignità e di giusta remunerazione che la Costituzione considera diritti. C’è un nesso fra democrazia in bilico e lavoro malpagato, lavoro in nero, lavoro precario, orari spesso disumani, nuove forme di lavoro schiavile nelle campagne del Sud e non solo? Ne sono convinta.

Non è un caso che la CGIL, sindacato che esiste da molto più di un secolo, cancellato dal fascismo e subito rinato dopo la Liberazione, abbia promosso la raccolta di firme per quattro quesiti referendari, volti a cancellare norme che negli ultimi anni, anche molto recenti, hanno indebolito la dignità del lavoro e squilibrato i rapporti fra datori di lavoro e lavoratori, erodendo diritti costituzionali che lo Statuto dei diritti dei lavoratori, negli anni Settanta, aveva reso esigibili. Quesiti referendari per rendere impossibili licenziamenti illegittimi, per ridurre la liberalizzazione dei lavori a termine, per riconoscere, in caso di infortuni, la responsabilità anche di imprese appaltanti. Per quanto mi riguarda, i referendum promossi dalla CGIL hanno il mio convinto sostegno.

Inoltre. Le morti sul lavoro, ogni giorno, in rapida crescita. I cinque morti di ieri in Sicilia ne sono una tragica conferma. C’è un nesso con la democrazia in bilico? Anche in questo caso, ne sono convinta. Un dato raccolto in questi giorni mi pone un interrogativo inquietante. Solo il 20% dei lavoratori dipendenti è sindacalizzato. Perché? Le forze politiche che si propongono come eredi di chi la Costituzione l’ha scritta, e i sindacati, rinati dopo la Liberazione, di fronte a questo dato dovrebbero con urgenza interrogarsi. Lo stanno facendo?

Cosa ci direbbero, di fronte a questo dato, Giuseppe Di Vittorio, padre Costituente? E Bruno Trentin, altro segretario generale della CGIL, molti decenni dopo Di Vittorio, in una fase storica che già vedeva crescere forze ostili alla Costituzione? Ci direbbero di studiare a fondo i dati di realtà, di vivere accanto a chi lavora, di ascoltare, di condividere. Di farsi carico, di mettersi nei panni sia di chi può appellarsi a contratti sottoscritti, sia di chi è fuori da ogni radar contrattuale, come erano i lavoratori all’origine di questa storia.

Ora, per mettere in salvo Costituzione e dignità di chi lavora o di chi il lavoro lo cerca, ci vorranno – in forme da aggiornare – creatività, forza, coraggio, non inferiori a quelle dell’inizio.

Una urgenza che interpella i sindacati, e non solo.