CERCANDO MARIOLA PER RAVENNA / La crisi dei referendum è la crisi della politica, non ci sono scorciatoie per salvare i referendum senza cambiare la politica

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Quella dei referendum abrogativi è una triste parabola. Un esempio poco luminoso di come uno strumento utile nelle mani dei cittadini possa poi diventare un mezzo abusato e banalizzato da parte delle forze politiche (dopo esordi lodevoli, per anni i radicali ne hanno fatto un grimaldello per spingere il Parlamento a legiferare fino a inflazionarne l’uso) e uno strumento improprio per intervenire in materie troppo complesse da essere ricomprese (e comprese) in un semplice sì o no. La fine dei 5 quesiti sulla giustizia ne è un esempio eclatante.

Fatto sta che la crisi della politica e della partecipazione democratica, che attraversa quasi tutte le democrazie occidentali – con conseguente diminuzione fisiologica della  percentuale di elettori che si presentano agli appuntamenti elettorali – si accompagna da tempo a questo uso improvvido del mezzo referendario, fino a depotenziarlo e a renderlo inutile. Lo strumento nato per stimolare la politica a fare è diventato parte del problema della politica del non fare.

Referendum Divorzio

Eppure, all’inizio non fu così. Ricordo la grandissima battaglia culturale, civile, democratica e politica che giocammo e vincemmo con il primo referendum sul divorzio nel maggio 1974. Un referendum imposto dalla Dc di Fanfani per cancellare una conquista di libertà. Un referendum che i radicali in ascesa decisero – in quel caso giustamente – di combattere fino in fondo, impegnando in quella battaglia tutta la sinistra, Partito Comunista di Enrico Berlinguer in primo luogo. Fu una battaglia di civiltà che lasciò un segno profondo: uno spartiacque nella storia italiana del dopoguerra.

Ricordo che magnifica scuola politica e democratica, che splendido e impegnativo banco di prova fu quel referendum per me e per tutta una nuova generazione che si affacciava allora alla politica. Negli anni ‘70 cambiammo profondamente l’Italia. Noi giovani insieme ai più anziani. Noi tutti, anche grazie ai referendum. Perché poi ne seguirono altri importanti, come quello sull’aborto (1981) e quello sul nucleare (1987).

Poi che è successo? Tante cose. In primo luogo la crisi della Prima Repubblica e del sistema politico costruito dai partiti e intorno ai partiti nati dalla Resistenza. Per restare ai referendum, all’uso subentrò presto l’abuso, la strumentalizzazione per altri fini (non referendum promossi per scegliere fra le ragioni del sì e del no su grandi questioni di opinione, ma per cercare visibilità, per riposizionarsi politicamente o semplicemente per lucrare voti), infine la banalizzazione. Ora siamo alla farsa. Non ricordo nemmeno più quale sia stato l’ultimo referendum andato a buon fine. Anzi, no, è quello sull’acqua pubblica, se non ricordo male (2011).

Ho già detto del combinato disposto fra uso scriteriato dello strumento e crisi della partecipazione politica. A questo si aggiunga anche che spesso gli esiti dei referendum sono stati poi bypassati e annullati dalla classe politica e dalle classi dirigenti su molti temi (non ultimo, appunto, quello sull’acqua pubblica), fino a rendere perfettamente inutile il pronunciamento popolare. O peggio.

Se io voto per una cosa che chiamo A e contro una cosa che chiamo B e tu poi in Parlamento voti un’altra cosa che chiami C – che non è A e non è B – ma sostanzialmente è molto più vicina a B che ad A, cioè è praticamente l’ipotesi già bocciata dal voto popolare, allora quel voto del popolo viene irriso e quasi ridicolizzato. È un incitamento a non votare più. Naturalmente tutto questo non c’entra in senso stretto con lo strumento referendario, ma chiama in causa soprattutto la qualità e serietà delle forze politiche e dei membri del Parlamento. Tutto finisce nel gran calderone che chiamiamo crisi della politica (e disaffezione per il voto).

Ma torniamo ai referendum non validi di domenica 12 giugno. Nessuna sorpresa, era una fine ampiamente annunciata. Nemmeno chi li aveva promossi (Lega e Radicali) ha fatto una vera e propria campagna elettorale, figurarsi gli altri. Perché avrebbero dovuto dannarsi l’anima per referendum ritenuti nel migliore dei casi incomprensibili e inutili, nel peggiore dannosi.

Referendum

Nando Pagnoncelli ha scritto sul Corriere della Sera un interessante articolo affermando che tre sono le ragioni del fallimento. La prima ragione è la “limitata risonanza mediatica dell’appuntamento referendario. Per lungo tempo è stato in sordina, non ha acceso il dibattito, ha mobilitato poco i partiti e ancor meno gli elettori, i quali nelle ultime due settimane, pur avendo preso consapevolezza della consultazione (82% ne era a conoscenza), in larghissima misura si sono mostrati disinteressati.”

La seconda ragione è “la complessità di alcuni quesiti referendari che hanno alimentato un sentimento di inadeguatezza rispetto alle questioni oggetto di voto: se in Italia le competenze linguistiche e matematiche sono inferiori alla media dei 36 paesi Ocse, possiamo solo immaginare quali possano essere le competenze in ambito giuridico e istituzionale. Riguardo almeno tre dei cinque quesiti referendari la stragrande maggioranza, stando alle nostre interviste, dichiarava di non essere in grado di valutare le conseguenze derivanti dalla possibile abrogazione delle norme.” Come dargli torto.

L’ultima ragione è “quella che potremmo definire ‘l’usura’ del referendum abrogativo, a cui nell’Italia repubblicana abbiamo fatto ricorso in 18 occasioni per un totale di 72 quesiti: si tratta di un declino molto evidente, basti pensare che dal 1974 al 1995 in Italia si sono tenute nove consultazioni referendarie con un’affluenza media di poco superiore al 70%, delle quali una sola risultò non valida (quella del 1990 con due quesiti sulla caccia e uno sull’uso dei fitofarmaci in agricoltura), mentre negli ultimi 15 anni la situazione si è completamente rovesciata, infatti delle nove consultazioni abrogative istituite, otto sono risultate non valide (compresa quella di ieri), e tra queste ce ne furono due, nel 1997 e nel 2000, che comprendevano quesiti riguardanti la giustizia e raggiunsero un’affluenza rispettivamente del 30% e del 32%. Dunque, solo una ha superato il quorum, nel 2011, quando gli elettori furono chiamati ad esprimersi su temi giudicati di grande importanza (e di facile comprensione) per i cittadini, dall’abrogazione della gestione privata dell’acqua a quella delle norme che consentivano la produzione di energia nucleare. Insomma, questioni che suscitarono un grande dibattito politico e mediatico. Tra i motivi di questa ‘usura’ c’è anche la disillusione di una larga parte degli italiani persuasi dell’inutilità dello strumento, dato che talora in passato furono introdotti provvedimenti legislativi che non rispettavano l’esito referendario.”

Ora molti dicono che bisogna riformare l’istituto del referendum, per esempio abbassando il quorum per la validità (non più il 50% più uno degli aventi diritto). Personalmente sono del parere che questi siano solo misure palliative, per nulla risolutive. La crisi del referendum è dentro la crisi della politica italiana, la crisi del rapporto di fiducia fra partiti ed elettorato, fra rappresentati e rappresentanti, oltre che naturalmente dentro la crisi della partecipazione democratica che è trasversale.

Senza aggredire tutti questi nodi – e qui ci sarebbe da scrivere un romanzo, ma non è il caso – non si risolve la crisi dell’istituto referendario. Non lo si fa né aumentando le firme, né abbassando l’asticella dei voti validi, né con altre scorciatoie.

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