L’OMBELICO D’ORO / Ravenna fascista e il relativismo storico. Note in margine al libro di Ivan Simonini su Mussolini e Dante (seconda parte)

Ho da poco letto qualche bel racconto di Bassani. Mi ha colpito in Ravenna, frammento incluso nel tardo L’odore del fieno (1972), la descrizione dei famosi “giochetti” inventati dagli squadristi ravennati durante il Ventennio:

“Gare in automobile a marcia indietro; sfide notturne di tiro alla pistola coi lampioni del viale della stazione (…) adoperati come bersagli; grandi cene, magari in smoking, durante le quali poteva succedere che una bella signora della migliore società (…) uscisse a un dato punto in escandescenze scandalose, e ciò perché nel piatto di risotto che le avevano dato da mangiare avevano messo in precedenza chissà quali porcherie…”

Questo stesso vitalismo un po’ cialtronesco, patrimonio genetico romagnolo, lo ritroveremo fra qualche anno, trascolorato nel giovanilismo esasperante di certi vitelloni felliniani – e ci farebbe quasi tenerezza a vederlo così, filtrato dai ricordi di gioventù di Bassani.

Ma, a fermarci qui, dimenticheremmo qualcosa. Ad esempio quella doppia marcia su Ravenna descritta da Simonini, sulla scorta di Alessandro Luparini. Quello schianto morale che nel giro di un biennio spazzò via l’Italia liberale, si può rintracciare anche a Ravenna, e in forme particolarmente violente – da abbandonare dunque anche il mito della “Vandea rossa”.

Il fascismo cittadino, “essenzialmente camaleontico”, si nutre di irredentismo, dantismo, dannunzianesimo e futurismo; è ben presente fin dai primissimi anni ’20 e prospererà come gramigna nella frattura, dal 1912 sempre più profonda, fra socialisti e repubblicani. “Il fascismo ha dovuto qui essere più creativo che altrove”, scrive Simonini, perché “la funzione anti-socialista era già svolta dai repubblicani, che in più svolgevano anche la funzione anti-monarchica e anti-clericale, cara a lungo anche al fascismo”.

Italo Balbo

Il gerarca Italo Balbo che guidò le due spedizioni fasciste a Ravenna, quella del settembre 1921 contro la Camera del Lavoro e quella del luglio 1922 contro la Federazione delle Cooperative

E dunque, ancora una volta, Dante. Il centenario del 1921 diventa l’occasione per mostrare i muscoli e mettere al loro posto operai e contadini socialisti. Dove non arrivano le elezioni, arriva la forza. Così, il 12 settembre giunge a Ravenna una colonna di 3.000 squadristi, guidati da Balbo e Grandi, ufficialmente per accompagnare i genitori di Baracca alla Tomba di Dante; in realtà per devastare la Camera del Lavoro di via Matteucci.

In questa occasione, scrive Balbo nei suoi diari, “fece la sua grande prima comparsa, come divisa militare, la camicia nera, che era il costume del lavoratore di Romagna e che diventò la divisa del soldato della rivoluzione”. Triste primato.

Un anno dopo, nel luglio del 1922, le violenze si ripetono. Questa volta a essere devastata è la Federazione della Cooperative di Nullo Baldini oltre a decine di Case del Popolo socialiste. I fascisti minacciano i repubblicani: volete fare la stessa fine, o scegliete noi? Fortunato Buzzi, sindaco repubblicano, cede e firma un patto di pacificazione con le camicie nere, consegnando di fatto la città al fascista Celso Calvetti.

Si apre così, con una prova generale di “marcia su Roma”, il ventennio per Ravenna; che, complice la sua “imperialità” e sacra per la presenza delle ossa di Dante, sarà subito “ligia all’onore per le scadenze del regime”, e fornirà al PNF, fino alla Repubblica, quadri di tutto rispetto (Giuseppe Frignani, Renzo Morigi, Ettori Muti). In cambio, il regime finanzierà nuovi edifici, risistemerà la Zona Dantesca e avrà un occhio di riguardo per la capitale romagnola.

Zona Dantesca Ravenna

La Zona Dantesca che ebbe una nuova sistemazione durante il Ventennio

Dante è di tutti… ma non tutti hanno ragione

Ciò che più mi piace di Simonini è la completa libertà intellettuale che traspare dalle sue pagine. Anche su un tema piuttosto delicato, come gli intrecci fra fascismo e dantismo, non si fa scrupoli e dice quel che pensa.

Il fascismo ha fatto cose buone per Dante, per le arti, per lo sport; vergognarsi del fascismo è “vacuo moralismo”; l’anti-fascismo di facciata, di comodo, “di cassetta”, è opportunista e spesso intellettualmente inconsistente; non si può mettere fuorilegge un’idea, checché ne pensino i politicamente corretti: Dante è stato anche dei fascisti, e “de-fascistizzarlo” significa a sua volta operare una violenza sulla storia delle sue interpretazioni, chiudersi gli occhi invece di comprendere. “Il Fascismo, come tutto il passato, lo puoi rimuovere efficacemente da te stesso solo dopo che lo hai assimilato”, chiosa Simonini.

Tutte cose che si possono condividere; non fosse che, a volte, forse per furor provocatorio, Simonini si spinge a sostenere qualche tesi un po’ azzardata e spesso senza argomentazione adeguata.

Ad esempio quando parlando di Enrico Fermi e del ruolo del gruppo di Via Panisperna nella creazione dell’atomica, azzarda: “Se i nazisti avessero perseguitato gli ebrei ma i fascisti non avessero fatto le leggi razziali (…) la prima bomba atomica con ogni probabilità sarebbe stata italiana”. Qui sono largamente sovrastimate le capacità tecnologiche, e sopratutto finanziarie, dell’Italia del 1938.

A volte si lascia andare a veri calembour dialettici, come nel capitolo dedicato alle presunte analogie filosofiche fra Gramsci e Mussolini. Il Duce avrebbe in fondo realizzato il progetto gramsciano del partito come “moderno principe” egemonico: erano due progetti metodologicamente “non alternativi”, sostiene Simonini. Ma il fascismo non si è imposto storicamente per egemonia culturale; al contrario, direbbe Gramsci, per “dominio”: ovvero con la coercizione violenta e il silenzio delle classi medie. La disciplina intellettuale gramsciana, così come il ruolo dell’intellettuale organico al partito, erano progetti teorici finalizzati all’emancipazione sociale e critica dell’individuo, non al suo controllo. “L’istruirsi, agitarsi, organizzarsi” di Gramsci è del tutto alternativo, a mio avviso, al “credere obbedire combattere” di Mussolini.

E infine si arriva ad argomentazioni storiche ancor più delicate. Riferendosi all’asse Roma-Berlino, Simonini parla di un “offuscamento obnubilatore” di Mussolini. Colpito da un “eccesso di autostima”, il Duce avrebbe avallato un’alleanza “assolutamente innaturale” con Hitler, che di lì a poco si sarebbe svelata “necessariamente letale”.

Mussolini e Hitler

L’errore insito in questa lettura storiografica è, a mio avviso, quello di attenuare le responsabilità di Mussolini, che, colpito da un delirio di onnipotenza, si sarebbe lasciato abbindolare da Hitler. Una lettura che somiglia pericolosamente alle tesi da bar dei revisionisti, per cui Mussolini aveva fatto bene “fino alle leggi razziali”.

E anche sull’innaturalità di quell’alleanza ho qualche dubbio: mi pare anzi assai logico che un regime violento, autoritario, bellicista e anti-democratico come quello fascista si sarebbe trovato prima o poi a suo agio alleandosi col Reich hitleriano, con buona pace della minoranza anti-tedesca – che pur si trovava fra i quadri del Fascio – e delle antipatie personali di Mussolini nei confronti di Hitler.

La parte giusta della storia esiste?

C’è poi un’ultima frase che mi ha messo sull’attenti: “La parte giusta della storia esiste solo per chi non va al di là del proprio naso (…) Non ci vuole la scala a preferire la democrazia alla dittatura. Ma dov’è scritto che quella parte sarà ritenuta giusta tra qualche secolo? (…) i vincitori che pretendono la genuflessione dei vinti, stanno semplicemente preparando la propria rovina”.

Fatico ad accettare questo relativismo, che oggi, nel 2020, mi sembra una posizione un po’ stanca, nella migliore delle ipotesi; in mala fede, nella peggiore. Che vuole dirci, Simonini? Che non esistono un bene o un male, ma solo interpretazioni storiche? Che confini, deportazioni, devastazioni e sevizie sono moralmente negoziabili, e che dipende un po’ tutto dal punto di vista? Che non esiste una verità storica ma solo infinite riscritture retoriche? Che ogni giudizio storico è viziato da un ingenuo manicheismo? Che fra qualche secolo riterremo giusto il sacrificio di quei 470 mila caduti italiani durante la Seconda Guerra Mondiale?

È vero: compito dello storico è comprendere, non giudicare. Ma questa comprensione, come scriveva la Arendt, non significa giustificare ciò che è successo – pericolo insito in una lettura relativista della storia. Giudicare è compito di ogni individuo, sua prerogativa. “Critica” significa questo, in fondo: aver il coraggio di sapere e non sospendere il giudizio; saper scegliere autonomamente cosa tenere e cosa buttare.

Non si tratta di diventare cani da guardia della Verità, né di chiedere la genuflessione del vinto; ma piuttosto di onorare chi ha scelto la democrazia in tempi di totalitarismi, spesso a costo della propria vita – altroché “non ci vuole la scala”. Onorarlo perché ci mostra una verità: è sempre possibile scegliere da che parte stare. E onorarlo perché ci sprona a un’auto-analisi: e noi, cosa avremmo fatto?

È vero: la verità storica, quella con la “v” maiuscola, forse non è raggiungibile per lo studioso, così come “la parte giusta della storia”; ma esiste, e non tutti ce l’hanno.

L’OMBELICO D’ORO / Cultura e potere. Alcune note a margine del libro di Ivan Simonini su Mussolini e Dante (prima parte)

Commenti

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  1. Scritto da Porter

    Mi pare che Simonini dice la sua senza timori di scorrettezza politica. E’ una dote piuttosto rara oggi giorno. Al di là del fatto che non si possano condividere tutte le sue posizioni, personalmente plaudo a come dia espressione alla sua libertà di coscienza.
    Cestinansi omologati di professione al pensiero unico.

  2. Scritto da Giovanni lo scettico

    “Il fascismo ha fatto anche cose buone” è anche il titolo di un libro di F. Filippi che consiglio ai lettori, nel quale vengono smascherate le cretinate propagandistiche di Mussolini che purtroppo ancora oggi hanno dei sostenitori, invero assai creduloni e ingenui. Per esempio la Previdenza Sociale non l’ha inventata il fascismo, esisteva già con una legge del 1895. Ma se uno crede alle foto del Duce a torso nudo che proclama la battaglia del grano, può credere a tutto.

  3. Scritto da BA

    Come si possono scrivere cose simili?Cosa si sente di dire ai parenti delle vittime cadute sotto il fascismo?Che il fascismo ha fatto anche delle cose giuste?Ammettiamo che fosse lei a subire una cosa così grave come reagirebbe?Con quale coraggio?Si faccia delle domande!

  4. Scritto da Porter

    Mr Giovanni, è vero che Mussolini non ha creato la previdenza sociale come molti credono, ma se lei si limita a dire che è stata creata nel 1895 su base volontaria e non precisa che nel 1919 l’assicurazione di vecchiaia venne resa obbligatoria tramite il decreto legge del 21 aprile 1919, n. 603, presentato alla Camera il 28 novembre 1918; il decreto fu emanato il 21 aprile 1919, ma rimase in attesa di conversione in legge dalla Camera; il 5 febbraio 1920 fu ripresentato dal ministro Dante Ferraris e il 25 giugno successivo fu presentato nuovamente dal ministro Arturo Labriola. Il decreto fu convertito in legge nel 1923 con il Regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3184 dal governo Mussolini che conferiva al provvedimento valore di legge. Esso ridenominò la cassa in Cassa nazionale per le assicurazioni sociali. Questo stando a Wikipedia.
    Quindi vede che l’obbligatorietà della contributzione,vero cardine di ogni contribuzione sociale, divenne effettiva con un governo fascista anche se l’iniziativa era partita da un precedente governo.
    La Verità dicono che la fa chi vince, ma anche chi cerca di informarsi bene

  5. Scritto da Giovanni lo scettico

    Gentile Porter, il regime fascista, tanto per farsi propaganda, ha prodotto il regio decreto legge 27 marzo 1933, n. 371 col quale si trasformò la Cassa nazionale in Istituto nazionale fascista della previdenza sociale (INFPS). Naturalmente dopo la guerra la “F” scomparve. Ma la parte che mi interessa farle notare è un’altra: deve sapere che già nel 1919 la vecchia Cassa di Previdenza diventò Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali e l’adesione al sistema dei versamenti fu imposto alle aziende come obbligatorio. Tanto le dovevo.

  6. Scritto da Porter

    Giovanni, ho già scritto che l’obbligatorietà della contribuzione era già stata concepita e proposta nel 1919. Il regime l’ha fatta diventare legge definitiva e poteva anche non farlo. Diciamo che ne ha costruito la pista di decollo, quando nello stesso periodo non si peritava di distruggere camere del lavoro e manganellare sindacalisti se non peggio. Poi la sua propaganda ha gonfiato la cosa, ma dire che non ha fatto nulla in merito è altrettanto propagandistico. Nessuno rimpiange il fascismo per via dell’INPS, stia tranquillo, quindi diciamo senza patemi tutto quello che ha fatto e tutto quello di cui si è vantato per propaganda.
    Comunque potrebbe anche aver fatto scorrere latte e vino nei fiumi, ma con le leggi razziali ed il vigliacco attacco alla Francia ed alla Grecia (che aveva per di più un regime di destra) ha meritato la fine che ha fatto-

  7. Scritto da artemio

    Ricordando le gags di 40 anni fa’ di Giorgio Bracardi quando faceva ..Catenacci..nessuno si scandalizzava e tutti ne ridevano, ora sarebbero da inquisizione! Fa riflettere!

  8. Scritto da Giovanni lo scettico

    Chiedo scusa se intervengo ancora, ma quello che volevo spiegare è che nel 1919 tutti gli italiani ebbero diritto per legge alla pensione. Vedasi G.U. n. 104 del 1-5-1919 e Decreto Legge Luogotenenziale 21 aprile 1919 n. 603 concernente “l’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vecchiaia per le persone di ambo i sessi che prestano l’opera alle dipendenze di altri”.
    Poi sulle malefatte, gli errori e la corruzione del fascismo ci sarebbe da scrivere per anni, ma questo è un altro discorso. Fra l’altro farei notare che quando ci fu la marcia su Roma, Mussolini si tenne molto lontano dall’azione, ma molto vicino al confine svizzero, mostrando un coraggio da leone… o era un altro animale?