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RAVENNA FERMO IMMAGINE / 20. Stefano Pelloni, il Passatore, mito e realtà, fra miseria, ribellismo e romagnolità

Dopo Francesco Serantini, il maggior testimone nella verità storica, non ci sono colpevolisti o innocentisti che tengano: effettivamente Stefano Pelloni resta catturato da quella incrollabile ricognizione. Mi sia consentito sottrarre il Passatore alla indagine avara di emozioni per poterlo avvicinare nell’atmosfera del mito, che dura finché dura il mondo che l’ha generato e lo racconta come un giovane fra tanti, nato a Boncellino dove “ladri e fagioli crescono in abbondanza”, nel ventennio di agonia del potere temporale della Chiesa.

Non sarà neppure necessario condividere lo slancio di Garibaldi per comprendere che Pelloni e Risorgimento hanno più di una chiave che li unisce. Scrive Garibaldi: “Le notizie del Passatore sono stupende, pare fa prodigi e ha distrutto un corpo di bersaglieri austriaci mandato contro di lui. Noi baccieremo il piede di quel bravo italiano che non paventa, in questi tempi di generale paura, di sfidare i dominatori e insegnare loro che la nostra terra è fatta solo pe’ loro cadaveri. Noi ambiamo essere soldati del Passatore, non è vero? Ebben venite! Se prepotenti doveri non ve lo impediscono. Noi guateremo il momento propizio a poter giovare all’infelice patria nostra…”.

MISERIA

La prima chiave è senza dubbio la miseria: l’incubo della fame e della sete, le malattie per la sporcizia in cui si era costretti a vivere, col rischio di dover morire lungo un viottolo di campagna perché respinti dagli ospedali, il timore di una aggressione di malandrini o bravacci. La miseria fa capire perché il movimento patriottico – specialmente qui in Romagna – si sia venuto ingrossando di nuove schiere, di senza lavoro, di miserabili e di scontenti.

Stefano Pelloni
Stefano Pelloni

RIBELLISMO

La seconda chiave la chiamerei il “ribellismo” di Stefano Pelloni. Nessuna lettura, per quanto benevola, della documentazione prodotta da Serantini può fare del Passatore qualcosa di diverso da un brigante. Solo che la sua vicenda, pur restando sostanzialmente quella di un ladrone, presenta dei risvolti più appropriati alle gesta di un ribelle. Già a partire dal primo scontro con la legge.

Il Corra, ad esempio, pensa a un Pelloni perseguitato da un “poliziotto di anime”, Don Morini, parroco di Pieve Cesato, dopo il rifiuto di “Stuvané” alla via del seminario: a Stefano piaceva troppo correre, scalmanarsi, fare a pugni, saltare i fossi…

Nessun motivo “politico” dunque. Eppure non sfuggirà il connotato comune a tutte le versioni che accusano Pelloni: la partecipazione diretta o indiretta, quale accusatore o quale teste, di un prete, tipico elemento dell’establishment di potere dell’epoca. In particolare, il soprannome affibbiato a quel Don Morini, “Don Fiumana” (che in dialetto romagnolo vale alluvione, piena del fiume) testimonia di una speciale aggressività, magari non solo contro il peccato, ma anche contro i peccatori.

Sembra legittimo riconoscere dunque, in questo inizio di carriera, la reazione di un giovane sconsiderato e riottoso contro un atteggiamento ritenuto persecutorio da parte di un rappresentante del potere. La conferma di questo condizionamento psicologico è proprio la smaniosa ricerca di vendetta nei confronti del prete ritenuto da Stefano la causa della sua rovina.

In data 23 dicembre 1850, il “Giornale di Roma” recò tra le corrispondenze ufficiali: “Monsignor Michele Morini, cavaliere di onore extra urbem e parroco della Pieve di Cesato, Diocesi di Faenza, passeggiava ieri sulle ore tre e mezzo in una strada campestre presso il villaggio. Gli si avvicinarono due incogniti nei loro mantelli ed aventi in testa cappucci detti all’Alibanda e gli spararono due colpi di pistola, coi quali lo stesero morto a terra”. Ancora oggi lungo via Accarisi, una croce di legno indica a chi passa il luogo dove la vendetta fu consumata.

In questa cornice d’odio contro la classe ecclesiastica – che provocò situazioni spiacevolissime a vari rappresentanti del clero – si ritrova una prima costante. Come seconda, la vendetta contro cittadini appartenuti alla Guardia Civica.

“Questo fatto (l’assassinio di Antonio Grilli nel marzo 1851) fu commesso dal Pelloni, da Giacomo Emaldi, da Morini e da me – dirà Farina, il traditore, nella sua versione -. Il Passatore fu quello che uccise il Grilli perché questo, ai tempi della Civica, aveva perseguitato i ladri e si era trovato all’uccisione di Pierone Giazzolo, anzi posso dire che il Passatore volle andare in quella casa più per commettere la suddetta vendetta, che per rubare”.

ROMAGNOLITÀ

L’ultima chiave è qualcosa di immateriale, ma potente come il destino, che Domenico Berardi chiama con un nome che non è scritto sui libri: “romagnolità”.

Anche in chi, come me, in Romagna ci vive da quando è nato, ogni giorno che passa si rafforza la convinzione che mai altra gente abbia mostrato ad un tempo diversi volti e contrastanti atteggiamenti dell’animo, come questa romagnola: ostinata, chiusa, selvatica, ma intelligente, entusiasta, ospitale. Sgarbata, violenta, a volte crudele, ma affettuosa, abile, sempre generosa. E tutto questo, il bene e il male, i vizi e le qualità, possiede e manifesta in modo eccessivo, straripante e irrefrenabile.

In un diario tenuto da uno spassoso sacerdote faentino, Domenico Fossa, si sente, nella laconicità delle annotazioni, questa sorta di callosità di fronte agli avvenimenti: 5 aprile – tempo cattivo, uccisione d’Alboni a Fognano; 12 – tempo mediocre, pioggia, uccisione d’un imolese fuori Porta Ravenna; 15 – gran vento, uccisione dell’ortolano di Pacali, aggressione alla casa Montuschi Paolo; 17 – tempo mediocre, archibugiata a Carlo Grilli; 18 – tempo mediocre, vento, un ammazzato senza testa ritrovato nel fiume di Marzeno con tre archibugiate.

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